FOOD & BEVERAGE

 

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Errori da evitare per esportare con successo prodotti eno-gastronomici made in Italy

Mentre tutti rincorrono l’economia tedesca e concentrano nel mercato della Germania la maggior parte delle loro risorse per espandersi nei mercati internazionali, molte aziende sottovalutano che il solo mercato della Cina nel 2018 ha più che triplicato l’import di Food & Beverage made in Italy registrando la cifra record di ben 439 milioni di euro (fonte Coldiretti).

LA COMFORT ZONE: E’ infatti il primo grande errore quello delle aziende italiane quello cercare di esportare unicamente nei mercati della loro cosiddetta “comfort zone”:

  • Germania
  • UK
  • USA

Mercati che presuppongono di conoscere e che sottovalutano essere altamente competitivi, per alcuni aspetti saturi e sopratutto performanti esclusivamente per i grossi marchi e/o gruppi che si presentano strutturati.

Macro mercati come quello cinese, o quello sempre più trainante come il sud est asiatico, vengono percepiti come “lontani” sia geograficamente che culturalmente e quindi difficilmente penetrabili.

E’ invece proprio in questi due mercati che, dati alla mano, le piccole, medie e grandi aziende europee e americane stanno giocando la partita del loro export plan per il prossimo decennio.

L’OSSESSIONATA RICERCA DELL'IMPORTATORE: Gli importatori hanno cominciato a sviluppare una concreta diffidenza nei confronti di tutte quelle aziende che si presentano impreparate alla condivisione di un piano di export per un mercato target e, parallelamente, sia brokers che distributori lamentano l’insistente chiamata da parte di aziende digiune di qualunque iniziativa rivolta al marketing per la promozione dei propri prodotti una volta posizionati su di uno scaffale, non curanti del fatto che la necessità primaria di vendere in un supermarket 300 grammi di Made in Italy commestibili è stata da anni soddisfatta e intorno ai quei 300 eccellenti grammi oggi si devono creare tutti quegli elementi che possano rendere il prodotto distintivo e competitivo.

THERE’S NO PLACE LIKE HOME: L’appartenenza geografica è sicuramente uno degli elementi distintivi di un prodotto Made in Italy ma pensare che oltre gli oceani possa questo costituire il perno della propria campagna di promozione è piuttosto errato.

I buyers della distribuzione specializzata e della grande distribuzione devono relazionarsi con due fattori determinanti: i pochi centimetri di spazio da destinare al posizionamento del prodotto e le probabilità che lo stesso possa “finire” nel carrello di un consumatore. Prima di pensare che la sola appartenenza ad un territorio possa fare da driver e garante sulla qualità di un prodotto, ancora prima bisogna risultare eye-catching e credibili attraverso le lenti del marketing B2C.


 


FCO News


28 ottobre 2020



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Made in Italy: il concetto di foodscape e la netnografia sono armi anti-contraffazione

I fenomeni di contraffazione connessi all’agrifood italiano ammontano a 60 miliardi di euro all’anno (dati: Coldiretti).

Paradossalmente, ciò accade perché il Food & Beverage del nostro paese è sinonimo di qualità in tutto il mondo; così, l’italian soundings ha generato e continua a generare imitazioni estere che non hanno nulla a che fare con i veri prodotti Made in Italy. In un verticale già così battagliato, quindi, le sfide si rinnovano. Ma cosa può fare, per vincerle, il marketer pragmatico? E in che modo può trovare un supporto nelle scienze umane?

Non è certo sufficiente comunicare le qualità intrinseche del prodotto, infatti; e, anzi, non è più nemmeno abbastanza affidarsi alla sua italianità nominale. Occorre invece comunicare la specifica italianità così delle materie prime come dei processi in tutto il loro percorso, in modo riconoscibile sia per il mercato interno che estero.

Come? Con lo storytelling sui social, per esempio: è un buon modo per inserire quello che abbiamo da dire in una narrativa, in una storia, che di per se stessa e nella sua unicità sarà difficilmente imitabile. E si deve quindi parlare non di food ma di foodscape, di paesaggio alimentare: raccontare cioè il cibo nel suo contesto fatto di luoghi, metodi produttivi e associazioni socio-culturali.

Ma è ovvio che occorre ripensare anche l’approccio al packaging. Non basta inserire dei fregi tricolore: bisogna pensare di rendere più leggibili le etichette, curandosi di osservare ma andando anche oltre le norme di legge, che hanno prodotto una selva di certificazioni poco comprensibili al consumatore (IGT, DOP, DOC, DOCG etc).

Con questo obiettivo in mente si può usare la realtà aumentata, per esempio, di modo da massimizzare l’utilizzo che i nostri shoppers fanno dello smartphone in-store. Per far conoscere la storia del brand, dei fondatori, delle persone che ci lavorano, ma soprattutto farne emergere l’unicità, con il racconto di un paesaggio del cibo, unico e inimitabile.

E la netnografia cosa può fare?

I più importanti stakeholder sono i consumatori di un brand/prodotto, e i social media sono il miglior luogo dove conoscere l’immaginario dei consumatori, perché forniscono uno sguardo ricco, autentico, veritiero e real-time delle loro percezioni.

Osservando l’andamento e le interazioni di una campagna su Facebook, ad esempio, non è necessario attendere mesi di ricerca con gli strumenti di ricerca tradizionali, come i focus group e le interviste qualitative, ma si può conoscere subito cosa non funziona. E ricalibrare la campagna di conseguenza.

Ma, anche, quando il proprio target non è raggiunto e/o quando il brand non è distinguibile con chiarezza, la netnografia permette di ascoltare l'audience . Così si può comprendere se i consumatori sono consapevoli di comprare un prodotto italiano, oppure perché preferiscono un’imitazione: sono influenzati dal prezzo? Entrano in gioco altre variabili?

L’indagine antropologica di un contesto, con la valorizzazione di un foodscape da narrare, e la ricerca netnografica applicata: sono armi adatte alla difesa del Made in Italy, nel campo di battaglia dei social networks.


 


FCO News


28 ottobre 2020




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